Qualche giorno fa si è verificata l’ultima strage sul lavoro: quattro operai morti ad Adria, in Veneto, intossicati in maniera letale da una nube di anidride solforosa sviluppatasi all’interno di un processo di trattamento di reflui in una ditta che si occupa di lavorazioni di rifiuti speciali. L’autopsia disposta dal Pm avrebbe accertato, stando alle prime notizie di stampa, che la morte sarebbe stata dovuta ad “asfissia tossica”, provocata dallo sprigionarsi di sostanze tossiche e urticanti che avrebbero provocato, a loro volta, la necrosi della mucosa. Tutto il tragico procedimento, fino all’esito mortale, sarebbe durato pochi istanti, tanto che i malcapitati operai sarebbero svenuti e subito dopo morti senza praticamente accorgersi di nulla.
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Ferme restando tutte le premesse metodologiche citate, forse non sarebbe fuori luogo porsi, già sulla base di queste prime notizie, qualche domanda relativa al livello d’informazione di quei lavoratori sulle sostanze su cui stavano lavorando e sui rischi specifici, di ogni natura, diretta e indiretta, collegati al trattamento delle stesse.
Queste prime, rischiose, valutazioni “a caldo” risultano giustificate, per non dire doverose, dall’indubitabile interesse pubblico, cui fa da contraltare un già sopravvenuto, desolante, disinteresse mediatico, in ordine a una questione del genere; anche e soprattutto per la frequenza di omicidi colposi, anche plurimi (quando c’è un’omissione di una norma di sicurezza a base di una morte di un lavoratore, la locuzione più appropriata è questa, non quella di “incidente”), sul lavoro causati, in tutto o in parte, da mancata o insufficiente informazione – formazione dei lavoratori, specie (ma non solo) in materia di avvelenamento da sostanze tossiche.
Nel 2006, nello stabilimento Ilva di Taranto, un lavoratore di una ditta appaltatrice morì per intossicazione da “gas afo”, quello proveniente dall’altoforno. Due anni fa, il Tribunale di Taranto ha condannato i dirigenti dell’appaltatrice e alcune figure di secondo piano della stessa Ilva per omicidio colposo per quella morte: uno dei principali profili di colpa ascritti agli imputati riguarda proprio l’assenza di qualsiasi seria informazione al lavoratore (come a tutti gli altri suoi compagni di lavoro, peraltro) sui rischi connessi all’uso del micidiale gas.
Nel 2008, a Molfetta, cinque operai morirono per le esalazioni di acido solfidrico sviluppatesi in una cisterna per il trasporto dello zolfo liquido. Nel 2009, il Tribunale di Trani ha condannato gli imputati, tra l’altro, anche per la “violazione delle leggi, regolamenti, ordini e discipline relative alle modalità e sistema di informazione specifica concernente i preparati pericolosi”.
Questi sono solo due precedenti giurisprudenziali, tra un numero complessivo ben più elevato, che dimostrano che l’informazione dei lavoratori e delle lavoratrici sui rischi connessi alla loro attività lavorativa è uno dei gangli tanto vitali quanto nevralgici dell’impianto normativo in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Il Testo Unico sulla Sicurezza, infatti, inserisce “l’informazione e formazione adeguate per i lavoratori” tra “le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro”. L’assunto a base di queste norma e delle altre a questa collegate è ovvio: la precondizione della prevenzione è l’adeguata informazione, anche e soprattutto in materia di sicurezza sul lavoro.
Ma, dato che siamo in un paese nel quale è di fatto codificata la scissione tra regola e prassi, quei principi, tanto elementari quanto determinanti per la vita e la salute di masse di lavoratori, nella realtà quotidiana dei posti di lavoro non scoppiano di salute. “L’agenda” dei mezzi d’informazione di massa (e, troppe volte, anche “di nicchia”), come si accennava sopra, non è proprio la medicina migliore di quest’ennesima italica piaga civile.
Per non dire, meglio, che ne è una delle cause principali. E’ sempre buona regola aspettare almeno la fine del dibattimento, possibilmente avendolo seguito e capito, prima di lanciarsi in commenti ‘di merito’ su un fatto di cronaca per il quale venga poi aperto un procedimento penale. Questo, però, non toglie che in alcuni casi, anche a pochi giorni di distanza dall’evento, possa prendersi spunto da quell’ipotetico fatto per qualche valutazione ‘di metodo’ che, pur senza anticipare improvvidamente, in alcun modo, sentenze di sorta, riguardi però profili generali relativi a quel tipo di vicende.
Qualche giorno fa si è verificata l’ultima strage sul lavoro: quattro operai morti ad Adria, in Veneto, intossicati in maniera letale da una nube di anidride solforosa sviluppatasi all’interno di un processo di trattamento di reflui in una ditta che si occupa di lavorazioni di rifiuti speciali. L’autopsia disposta dal Pm avrebbe accertato, stando alle prime notizie di stampa, che la morte sarebbe stata dovuta ad “asfissia tossica”, provocata dallo sprigionarsi di sostanze tossiche e urticanti che avrebbero provocato, a loro volta, la necrosi della mucosa. Tutto il tragico procedimento, fino all’esito mortale, sarebbe durato pochi istanti, tanto che i malcapitati operai sarebbero svenuti e subito dopo morti senza praticamente accorgersi di nulla.
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Ferme restando tutte le premesse metodologiche citate, forse non sarebbe fuori luogo porsi, già sulla base di queste prime notizie, qualche domanda relativa al livello d’informazione di quei lavoratori sulle sostanze su cui stavano lavorando e sui rischi specifici, di ogni natura, diretta e indiretta, collegati al trattamento delle stesse.
Queste prime, rischiose, valutazioni “a caldo” risultano giustificate, per non dire doverose, dall’indubitabile interesse pubblico, cui fa da contraltare un già sopravvenuto, desolante, disinteresse mediatico, in ordine a una questione del genere; anche e soprattutto per la frequenza di omicidi colposi, anche plurimi (quando c’è un’omissione di una norma di sicurezza a base di una morte di un lavoratore, la locuzione più appropriata è questa, non quella di “incidente”), sul lavoro causati, in tutto o in parte, da mancata o insufficiente informazione – formazione dei lavoratori, specie (ma non solo) in materia di avvelenamento da sostanze tossiche.
Nel 2006, nello stabilimento Ilva di Taranto, un lavoratore di una ditta appaltatrice morì per intossicazione da “gas afo”, quello proveniente dall’altoforno. Due anni fa, il Tribunale di Taranto ha condannato i dirigenti dell’appaltatrice e alcune figure di secondo piano della stessa Ilva per omicidio colposo per quella morte: uno dei principali profili di colpa ascritti agli imputati riguarda proprio l’assenza di qualsiasi seria informazione al lavoratore (come a tutti gli altri suoi compagni di lavoro, peraltro) sui rischi connessi all’uso del micidiale gas.
Nel 2008, a Molfetta, cinque operai morirono per le esalazioni di acido solfidrico sviluppatesi in una cisterna per il trasporto dello zolfo liquido. Nel 2009, il Tribunale di Trani ha condannato gli imputati, tra l’altro, anche per la “violazione delle leggi, regolamenti, ordini e discipline relative alle modalità e sistema di informazione specifica concernente i preparati pericolosi”.
Questi sono solo due precedenti giurisprudenziali, tra un numero complessivo ben più elevato, che dimostrano che l’informazione dei lavoratori e delle lavoratrici sui rischi connessi alla loro attività lavorativa è uno dei gangli tanto vitali quanto nevralgici dell’impianto normativo in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Il Testo Unico sulla Sicurezza, infatti, inserisce “l’informazione e formazione adeguate per i lavoratori” tra “le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro”. L’assunto a base di queste norma e delle altre a questa collegate è ovvio: la precondizione della prevenzione è l’adeguata informazione, anche e soprattutto in materia di sicurezza sul lavoro.
Ma, dato che siamo in un paese nel quale è di fatto codificata la scissione tra regola e prassi, quei principi, tanto elementari quanto determinanti per la vita e la salute di masse di lavoratori, nella realtà quotidiana dei posti di lavoro non scoppiano di salute. “L’agenda” dei mezzi d’informazione di massa (e, troppe volte, anche “di nicchia”), come si accennava sopra, non è proprio la medicina migliore di quest’ennesima italica piaga civile.
Per non dire, meglio, che ne è una delle cause principali.E’ sempre buona regola aspettare almeno la fine del dibattimento, possibilmente avendolo seguito e capito, prima di lanciarsi in commenti ‘di merito’ su un fatto di cronaca per il quale venga poi aperto un procedimento penale. Questo, però, non toglie che in alcuni casi, anche a pochi giorni di distanza dall’evento, possa prendersi spunto da quell’ipotetico fatto per qualche valutazione ‘di metodo’ che, pur senza anticipare improvvidamente, in alcun modo, sentenze di sorta, riguardi però profili generali relativi a quel tipo di vicende.
Qualche giorno fa si è verificata l’ultima strage sul lavoro: quattro operai morti ad Adria, in Veneto, intossicati in maniera letale da una nube di anidride solforosa sviluppatasi all’interno di un processo di trattamento di reflui in una ditta che si occupa di lavorazioni di rifiuti speciali. L’autopsia disposta dal Pm avrebbe accertato, stando alle prime notizie di stampa, che la morte sarebbe stata dovuta ad “asfissia tossica”, provocata dallo sprigionarsi di sostanze tossiche e urticanti che avrebbero provocato, a loro volta, la necrosi della mucosa. Tutto il tragico procedimento, fino all’esito mortale, sarebbe durato pochi istanti, tanto che i malcapitati operai sarebbero svenuti e subito dopo morti senza praticamente accorgersi di nulla.
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Ferme restando tutte le premesse metodologiche citate, forse non sarebbe fuori luogo porsi, già sulla base di queste prime notizie, qualche domanda relativa al livello d’informazione di quei lavoratori sulle sostanze su cui stavano lavorando e sui rischi specifici, di ogni natura, diretta e indiretta, collegati al trattamento delle stesse.
Queste prime, rischiose, valutazioni “a caldo” risultano giustificate, per non dire doverose, dall’indubitabile interesse pubblico, cui fa da contraltare un già sopravvenuto, desolante, disinteresse mediatico, in ordine a una questione del genere; anche e soprattutto per la frequenza di omicidi colposi, anche plurimi (quando c’è un’omissione di una norma di sicurezza a base di una morte di un lavoratore, la locuzione più appropriata è questa, non quella di “incidente”), sul lavoro causati, in tutto o in parte, da mancata o insufficiente informazione – formazione dei lavoratori, specie (ma non solo) in materia di avvelenamento da sostanze tossiche.
Nel 2006, nello stabilimento Ilva di Taranto, un lavoratore di una ditta appaltatrice morì per intossicazione da “gas afo”, quello proveniente dall’altoforno. Due anni fa, il Tribunale di Taranto ha condannato i dirigenti dell’appaltatrice e alcune figure di secondo piano della stessa Ilva per omicidio colposo per quella morte: uno dei principali profili di colpa ascritti agli imputati riguarda proprio l’assenza di qualsiasi seria informazione al lavoratore (come a tutti gli altri suoi compagni di lavoro, peraltro) sui rischi connessi all’uso del micidiale gas.
Nel 2008, a Molfetta, cinque operai morirono per le esalazioni di acido solfidrico sviluppatesi in una cisterna per il trasporto dello zolfo liquido. Nel 2009, il Tribunale di Trani ha condannato gli imputati, tra l’altro, anche per la “violazione delle leggi, regolamenti, ordini e discipline relative alle modalità e sistema di informazione specifica concernente i preparati pericolosi”.
Questi sono solo due precedenti giurisprudenziali, tra un numero complessivo ben più elevato, che dimostrano che l’informazione dei lavoratori e delle lavoratrici sui rischi connessi alla loro attività lavorativa è uno dei gangli tanto vitali quanto nevralgici dell’impianto normativo in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Il Testo Unico sulla Sicurezza, infatti, inserisce “l’informazione e formazione adeguate per i lavoratori” tra “le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro”. L’assunto a base di queste norma e delle altre a questa collegate è ovvio: la precondizione della prevenzione è l’adeguata informazione, anche e soprattutto in materia di sicurezza sul lavoro.
Ma, dato che siamo in un paese nel quale è di fatto codificata la scissione tra regola e prassi, quei principi, tanto elementari quanto determinanti per la vita e la salute di masse di lavoratori, nella realtà quotidiana dei posti di lavoro non scoppiano di salute. “L’agenda” dei mezzi d’informazione di massa (e, troppe volte, anche “di nicchia”), come si accennava sopra, non è proprio la medicina migliore di quest’ennesima italica piaga civile.
Per non dire, meglio, che ne è una delle cause principali.http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/25/sicurezza-sul-lavoro-gli-operai-di-adria-erano-stati-formati-sui-rischi/1133000/
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