venerdì 29 novembre 2013

“ILLEGALI I SOLDI AI PARTITI” C’È UN GIUDICE A ROMA IL PROCURATORE DELLA CORTE DEI CONTI

DEL LAZIO RICORRE ALLA CORTE COSTITUZIONALE: ”CON IL RITORNO DEI FONDI PUBBLICI VIOLATO IL REFERENDUM” di Sara Nicoli Ce l’hanno messa tutta e in vent’a nni si sono intascati 2,7 miliardi di euro nonostante 31 milioni di italiani, nell’aprile del ‘93, avessero votato, in modo plebiscitario, per l’a b o l i z i one del finanziamento pubblico ai partiti. Un referendum, promosso dai Radicali, diventato carta straccia grazie a sottili artifici lessicali che hanno trasformato i “finanziamenti” in “r i mborsi”, aggirando la volontà popolare fino a quando, con lo scandalo della Lega, ma anche con il caso Lusi e molti altri accadimenti legati al malcostume della Casta, la volontà popolare si è trasformata in incitamento alla protesta da parte di Grillo e dei suoi. Inducendo perfino il pacato Enrico Letta a minacciare, dal giugno scorso in poi, di intervenire “anche per decreto” pur di mettere fine alla faccenda. ORA, dopo che la Camera ha approvato, non senza sforzo e disagio, una legge che dovrebbe interrompere l’erogazione a pioggia di denaro sui partiti, salvo poi scordarsela in commissione Affari costituzionali del Senato, ecco che ieri un giudice ha messo fine al balletto, sollevando una questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale. Stiamo parlando del procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis. Che, in pratica, ha messo in mora tutte le leggi, a partire dal 1997, che hanno reintrodotto il finanziamento pubblico dei partiti, per averlo fatto “in difformità” rispetto al referendum del ‘93. La decisione è partita dopo l’indagine istruttoria aperta nei confronti di Luigi Lusi, sotto processo anche penalmente per illecite sottrazioni di denaro pubblico. Per De Dominicis, tutte le leggi che la Casta ha prodotto e votato per continuare a mettere le mani nelle tasche dei cittadini, “sono da ritenersi apertamente elusive e manipolative del risultato referendario, e quindi materialmente ripristinatorie di norme abrogate”. Per la Corte dei Conti, quindi, “tutte le disposizioni impugnate, a partire dal 1997 e, via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012, hanno ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993, facendo ricorso ad artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi”. Dalla normativa contestata, sempre secondo il magistrato contabile, deriva “la violazione del principio di parità e di eguaglianza tra i partiti e dei cittadini”. Infatti – argomenta – i rimborsi deducibili dal meccanismo elettorale “risultano estesi”, dopo il 2006, a tutti e cinque gli anni del mandato parlamentare, in violazione “del carattere giuridico delle erogazioni pubbliche, siccome i trasferimenti erariali, a partire dal secondo anno, non solo si palesano come vera e propria spesa indebita, ma assunti in violazione del referendum dell'aprile 1993”. Insomma, i partiti hanno “preso in giro” i cittadini “attraverso la finzione del linguaggio”, come sottolineato dal professor Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”, ma questo non ha fermato la Casta. Che ora, forte anche dell’attesa su una pronuncia della Corte, potrebbe decidere persino di non proseguire nell’approvazione del nuovo ddl in stallo in commissione Affari costituzionali del Senato, per evitare che venga dichiarato incostituzionale appena approvato. D’altra parte, dentro quel provvedimento è scritto chiaramente che l’eroga - zione dei fondi pubblici si sarebbe dovuta interrompere nel 2017. Una data troppo lontana, a ben guardare, per la Corte costituzionale che solo ora, si sottolinea, può intervenire sul tema perché chiamata in causa direttamente da un giudice. E poi in quella legge sono contenute una serie di storture che non risolvono assolutamente il problema così come impostato dal giudice contabile alla Consulta. Si prevede, infatti, l’iscrizione dei partiti che possono essere inseriti nell’ap - posito registro e accedere così al finanziamento, mentre altri no (guarda caso, i 5 Stelle, perché non hanno lo statuto), ma a pagare è sempre lo Stato. PER L’ANNO in corso e i prossimi tre anni l’esborso sarà sempre forte: nel 2014, 91 milioni di euro; 54 milioni e 600 mila per il 2015; 45 milioni e mezzo per il 2016 e per il 2017 circa 36 milioni 400 mila. A queste somme si aggiungono le donazioni dei cittadini che potranno dare il due per mille mentre il tetto del finanziamento da parte dei privati è stato innalzato, alla fine, fino a oltre 100 mila euro. Insomma, l’ennesimo modo per aggirare la volontà popolare. Resta da vedere che cosa farà il governo alla luce di questa assoluta novità giuridica che ieri ha visto i grillini chiedere di nuovo “la restituzione dei soldi agli italiani” e Mario Staderini, segretario dei Radicali, affermare che per “vent’anni i partiti hanno fatto un furto agli italiani”. La cifra è comunque imponente, sicuramente scandalosa in tempi di crisi come questi, dove si fatica a comprendere il distacco della politica da un problema così evidente. Perché salta agli occhi fin troppo chiaramente che chissà quante cose avremmo potuto fare con 2,7 miliardi di euro in più a bilancio dello Stato. Spesi diversamente. Nel 1993 referendum 31 milioni di no APRILE 1993, più di 31 milioni di italiani votano per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Tangentopoli è scoppiata da un anno, i magistrati milanesi hanno già scoperto numerose mazzette ai tesorieri di quasi tutti i partiti italiani. Il referendum è stato fortemente voluto dal Partito radicale. I cittadini italiani, stanchi delle ruberie e scottati dal prelievo forzoso sui conti correnti imposto dal governo Amato, dicono basta ai soldi pubblici ai partiti. Ma la loro volontà sarà tradita a dicembre, quando il Parlamento aggiorna una legge precedente. Non più finanziamenti, ma “rimborsi elettorali”. il fatto quotidiano 30 novembre 2013

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